Democrazia e autonomia: che parole meravigliose. Due semplici parole che da sole esprimono concetti importanti, pieni di significato e che, messe insieme, diventano il desiderio di un popolo, un progetto, una speranza per il futuro. La indipendente e condivisa ricerca della propria via per la felicità. Quella più intima e personale, quella che viene dalla consapevolezza che esiste la concreta possibilità di poter consegnare ai propri figli un futuro migliore di quello che si è ricevuto e la felicità da condividere con il nostro prossimo. Quella in cui gli interessi dei tanti prevalgono sugli interessi dei singoli, la cosa pubblica è vissuta come una ricchezza da curare e non come un forziere da espugnare, i buoni vincono ed i cattivi finiscono in gabbia.
Mi piacerebbe tanto scrivere di altri argomenti ma non ci riesco. Vorrei raccontare delle mie esperienze di cuoco amatoriale, dell’ultimo film di James Bond, del mio gatto, ma, come è proverbiale, la tastiera batte dove il dente duole.
C’è stato un tempo in cui, con il paese più o meno allo sbando, qualcuno ha cercato di convincerci che per ben amministrare la nazione bisognava assoggettarla a metodi e criteri da azienda privata. E certo, anni e anni di uso politico della cosa pubblica aveva ridotto lo Stato e la sua amministrazione ad un pachiderma ingestibile gravato da mille catene. Sciogliere i lacci ed i lacciuoli che appesantiscono la privata iniziativa, qualcuno tuonò imperativo.
Quello che nessuno disse, nessuno spiegò, fu che il privato operava nel settore pubblico non per grazia divina ed animato da spirito di servizio civile ma per rimpinguare il suo profitto che stava sempre più perdendo colpi a causa delle rinnovate regole e professionalità volute dal mercato globale. Ad un certo punto del dibattito politico-sociale qualcuno cominciò a dire che i dipendenti della pubblica amministrazione erano una specie di parassiti della nazione, meritevoli solo di sterminio e che i nuovi manager, i professori, erano i depositari del nuovo ordine nazionale. Il pubblico incominciò a cedere il passo al privato che, a sua volta, iniziò a privare la maggior parte degli italiani dei diritti più elementari. Giustizia e legalità per primi, poi il diritto al lavoro, alla famiglia. Il diritto alla partecipazione e ad essere i principali soggetti della vita politica del paese. Anche il diritto di voto fu messo in discussione e rapidamente affossato.
Non mi voglio dilungare troppo su questo aspetto della storia del nostro paese, non ne sarei neanche capace. Fatto è che iniziammo a svendere i gioielli di stato ad emergenti capitani coraggiosi e fu l’inizio della fine. Improvvisamente fu tutto un fiorire di commissari, manager e prestigiatori di vario genere. Improvvisamente non c’era più tempo per pensare, programmare, condividere. Bisognava fare tutto e subito senza star troppo a preoccuparsi delle ricadute di medio e lungo termine.
Fu un attimo. L’I.R.I. sparì con tutto quello che conteneva, telefonia e telecomunicazioni non furono più cosa italiana, il mercato si aprì in tutti i suoi settori senza nessuna rete di sicurezza. Persino il bene primario dell’acqua non fu più assicurato a tutti i cittadini ma solo a quelli che avevano i denari per pagarsela.
La storia non lascia spazio ad interpretazioni. Dopo tangentopoli e la fine della prima Repubblica ci fu la discesa in campo di Berlusconi, la fine del Pci, Prodi, Gianfranco Fini che una ne diceva e cento ne sbagliava, Bossi e la lega, Grillo ed i suoi programmi a cinque stelle. E mentre accadeva tutto questo, sempre con la scusa che l’Europa lo esigeva, in Italia, la democrazia, pian piano, si affievoliva. E mentre la democrazia diminuiva cresceva il pelo sullo stomaco dei rappresentanti del popolo, sempre più rappresentanti di partiti e sempre più lontani dal popolo e, curiosamente, ancor più di prima, si radicava in molti l’idea che per risolvere i problemi del paese ci voleva un approccio breve, decisionista, essenziale, quasi da illuminato.
Balle, erano tutte balle ma, tant’è, quando c’è crisi non si va tanto per il sottile, grazie a gente del calibro di Giorgio Napolitano, Massimo D’Alema, Nicola Mancino, Pier Ferdinando Casini, Gianfranco Fini, Beppe Grillo, Riccardo Maroni, Pier Luigi Bersani, sto andando a memoria, un po’ a caso e sono sicuro che sto dimenticando nomi eccellenti, ci siamo ritrovati con Renzi al governo che è, ed è solo una mia personale opinione, quanto di meno democratico ci potesse capitare. Pensatela un po’ come vi pare, il baldo e hightechcoso fiorentino mi appare sempre più come uno che non riesce a capire che la democrazia è una roba seria, sostanziale.
Qualche giorno fa ero a cena con amici e, come spesso capita in queste occasioni, la discussione ha preso una piega politica prendendo spunto dal racconto di uno dei commensali che aveva avuto l’occasione, non so in che modo, di apprezzare i programmi di Antonio Bassolino probabile candidato sindaco alle prossime amministrative di Napoli. Un brivido mi ha attraversato la schiena, ho provato ad intavolare un ragionamento sulla carriera di don Antonio ma sono stato raggelato dall’affermazione “Bassolino è un politico vero”. Va beh, il convivio prenatalizio doveva andare avanti ed ho pensato bene di non andare oltre, mi sono annotato l’affermazione ed ho attaccato la pizza.
Dunque Bassolino è un politico vero e, ammesso e non concesso, averlo ancora al nostro servizio, alla guida della città, potrebbe essere positivo ? O saremo noi napoletani a finire al servizio di Bassolino ? Vediamo se ricordo bene: Bassolino è quello che appena eletto sindaco lasciò che il Comune di Napoli dichiarasse il dissesto ed è rimase ad occuparsi della ordinaria amministrazione. Una ordinaria amministrazione fatta di accordi, intese, equilibri che, nei circa venti anni trascorsi a Napoli tra palazzo San Giacomo e via Santa Lucia, hanno prodotto un buco nelle casse dei napoletani immenso. Un infinito universo fatto di aziende partecipate, costosi consigli di amministrazione, inutili consorzi di bacino, ricchissime consulenze date sempre ai soliti noti. L’epilogo del regno di don Antonio da Afragola è noto: nel 2010 Napoli era una città con le pezze al culo, i palazzi del potere sprangati dall’interno, Rosa Russo Iervolino sindaco in balia delle onde, e la spazzatura che non veniva raccolta disseminata ed accumulata in ogni angolo delle strade della città.
I turisti che arrivavano a Napoli, quei pochi che arrivavano, immediatamente si dirigevano verso luoghi più salubri come Pompei, la costiera sorrentina, le isole, non senza aver prima scattato un selfie ricordo vicino alle inverosimili montagne di munnezza che invadevano la città. Le grandi navi da crociera smisero di arrivare e qualcuno paventò problemi di salute pubblica.
Sono passati diversi anni da quell’infausto tempo. Quel sistema di potere è stato smantellato e giace come brace sotto la cenere. Ogni tanto scoppietta, cerca di farsi vedere, di piazzare qualche buon affaruccio ma, per il momento è intrappolato nel suo forzato letargo.
Il fatto è che alle amministrative del 2011 a Napoli accadde un fatto inaspettato. Tra un pallido sottoprodotto del berlusconismo dei tempi migliori, un giovane rampante pentastellato ed altri personaggi minori, Napoli diede mandato e fiducia ad un uomo nuovo, fuori dagli schemi, ex magistrato suo malgrado, uomo di legge per professione e di giustizia per vocazione. Sopra le ceneri della devastazione economica, politica e sociale che i napoletani avevano fino a quel momento subito, Luigi de Magistris iniziò a ricostruire la città partendo dal nulla e con in tasca niente.
Dunque lasciatemi tornare alla questione sollevata dal mio amico che guardava alla nuova candidatura Bassolino nella convinzione di affidarsi ad un politico e lasciatemi condividere con voi qualche pensiero.
Partiamo dalla certezza che a me nulla importa di Bassolino, Lettieri e di tutti gli altri candidati, non li ritengo politicamente ed intellettualmente onesti e quindi non candidabili. Per carità, sono certo persone più che degne, ma, nella mia opinione, espressione di quella vecchia politica tutta italiana che metteva sempre gli interessi del partito o della corrente davanti agli interessi dei cittadini. La politica del potere che confonde lo stato con l’azienda, la politica prepotente governata sempre dai soliti nomi schierati dietro simboli diversi ma consorziati nella loro perenne necessità di fare dello stato e del territorio il loro personalissimo giocattolo. Assumiamo come punto fermo della discussione che un mandato da sindaco non si può giudicare contando le cose che non funzionano e cha ancora ci sono da fare e che l’inquilino di palazzo San Giacomo non è il regnante assoluto ed indiscusso della città ma solo il suo amministratore con delle competenze ben circoscritte.
Detto questo, la domanda alla quale vorrei rispondere è: perché ho votato De Magistris e perché continuerò a votarlo ? Semplice la risposta da dare a chi ha orecchie e cervello liberi da pregiudizi ed interessi. Con tutti gli altri neanche mi metto a discutere, ai soldatini non è concesso elaborare opinioni.
Luigi de Magistris, con il suo modo di esercitare il mandato ricevuto dalla città, ha aperto una nuova via nella politica italiana. Niente clan, niente bacini elettorali, niente servi della gleba da foraggiare. Ha aperto una via nuova nel modo di amministrare la città, una via segnata dalla legalità e dal senso della giustizia.
Senza il becco di un quattrino in cassa, anzi, ereditando una situazione molto peggiore di quella che era immaginabile all’indomani della vittoria elettorale, ha iniziato a spalancare le porte del palazzo ed ha far entrare aria pulita. Via tutti gli sprechi generati dalle precedenti amministrazioni, senza mai lamentarsi di quelli che c’erano prima, ha iniziato a valorizzare le poche risorse che aveva a disposizione ed il patrimonio umano della macchina comunale.
Non farò nessuno elenco di cose fatte, per informarsi su queste cose basta fare un giro in rete, quel che più ho apprezzato in questi anni è il modo in cui le cose sono state fatte. Occhi aperti e orecchie spalancate per ascoltare le mille voci della città. Gli interessi dei napoletani, a partire da quelli dei più deboli, sempre a far da guida all’esecuzione del mandato ricevuto. Perennemente esposto a mille attacchi da parte della politica nazionale, bersaglio di scorrettezze istituzionali da parte di chi doveva contribuire alla crescita della città e della regione, il sindaco non ha mai disatteso lo Stato di diritto, non ha mai mancato nei confronti delle istituzioni . Anche nei momenti più difficili come quello della sospensione dal mandato o quello recentissimo dell’imbarazzante cabina di regia per la riqualificazione di Bagnoli, non ha mai smesso di credere nelle istituzioni muovendosi sempre nei limiti di quello che gli permette la legge, senza lanciare invettive, senza vittimismi. Senza lasciare mai la città da sola in balia della politica nazionale che la vorrebbe colonia di un sistema sempre più deteriorato ed autoreferenziale.
A Napoli democrazia e autonomia, grazie al lavoro svolto da Luigi de Magistris, hanno preso la forma di un progetto politico nuovo, fino a ieri impensabile in Italia. Un progetto che definisce i cittadini come destinatari dell’azione amministrativa e politica. Che permette a tutti di partecipare, che non alza muri e che non chiude porte, che include tutti, a partire dai più deboli.
E’ per questi motivi che, nella mia opinione, l’esperienza di de Magistris a Napoli non deve finire, anzi, deve continuare e deve essere sostenuta il più possibile fino a diventare un riferimento per tutti gli italiani.
Napoli è una città che di Don, imprenditori dalle tinte pallide, politicanti d’altri tempi, arroganti giovani fuori e vecchi dentro, proprio non ha bisogno. Napoli è una città ricca di risorse e potenzialità, di storia, arte e cultura che deve risplendere sotto il suo meraviglioso sole determinando autonomamente e democraticamente la propria storia.