C’è una parola che ultimamente risuona forte nell’aria: rivoluzione. Sempre più spesso leggo, ascolto, percepisco in giro, voglia di rivoluzione. Un po’ nelle chiacchiere della gente che ascolto andando in giro per la città, sul web e nei social network si inneggia alla rivoluzione contro la congiuntura politica e sociale che stiamo attraversando. Solo nei giornali se ne parla poco, soprattutto quelli più filogovernativi. In tv niente, a dar retta alla scatola luminosa la crisi è passata e non c’è niente di cui preoccuparsi.
Per me la parola rivoluzione è associata ad una canzone dei Beatles, famosa per il suo riff introduttivo molto pre hard rock e per il travaglio intellettuale di Lennon che, nel tempo cambiò il suo verso chiave da “non contare su di me” a “puoi contare su di me”. Poi se scavo nella memoria ci sono le immagini in bianco e nero della primavera di Praga, quelle a colori di piazza Tienanmen, la scatoletta di fagioli di Warhol, il primo pc sulla mia scrivania attaccato ad un modem che improvvisamente azzerava le distanze tra me ed il resto del mondo, il femminismo ed il referendum sul divorzio, Diego Armando Maradona, il primo iPhone e tanto altro ancora. Rivoluzioni grandi e piccole hanno affollato, fino ad oggi, i miei giorni. Qualcuna l’ho vista da lontano, altre le ho perse, ad altre ho partecipato. Tu dici che vuoi la rivoluzione ? (Revolution, Lennon McCarntney, The Beatles 1989 n.d.r.)
A Napoli poi ho sentito parlare di rivoluzioni anche troppo spesso. A volte le rivoluzioni sono state addirittura epocali. Di quando in quando un salvatore della città sale agli onori della cronaca giusto il tempo per starci un po’, a volte un po’ molto, per poi finire nel limbo dei Masaniello che hanno movimentato la vita sociale napoletana. Ed ogni volta ho visto schiere di tifosi ed ultrà spostarsi in massa dietro questo e quello striscione.
Una cosa credo di averla capita: le vere rivoluzioni, quelle che veramente cambiano le cosa, non fanno rumore. Sono silenziose, lunghe, sofferte, accompagnate da mille inciampi e mille ripartenze. Lasciano graffi profondi sulla pelle e tanti dubbi nel cuore. Ma quando riescono le vere rivoluzioni, sono inarrestabili e lasciano il segno.
Il rock’n’roll è stata una bella rivoluzione che ha cambiato il mondo della musica in modo sostanziale e duraturo. Lo ha fatto nell’arco di decenni, tra entusiasmi e ripensamenti, con le sue vittime ed i suoi profeti. Certo, diranno in molti, sono solo canzonette, ma l’esempio calza a pennello.
Una cosa credo di averla imparata: il miglior modo di impedire una rivoluzione è farne tante, in continuazione. Tante rivoluzioni brevi ed intense, possibilmente dotate di un condottiero telegenico da consegnare rapidamente alla storia mentre si mantiene l’ordine senza che nessuno abbia a lagnarsi.
Quante rivoluzioni ci sono state in Italia negli ultimi anni ? In ambito sociale, economico e politico ? Cosa ci hanno lasciato ? Chi ne ha tratto duraturo giovamento ?
Poi mi capita di svegliarmi una mattina e trovarmi, senza neanche rendermene conto, in mezzo ad una rivoluzione. Mi convinco che è una rivoluzione vera, o quanto meno sostanziale, osservando un mucchio di gente, di gruppi, di centri di pensiero, che normalmente sarebbero impegnate in un eterno gioco del tutti contro tutti, improvvisamente tutti focalizzati contro un unico obiettivo. Tutto diventa un costante gioco al massacro.
Una cosa del genere sta accadendo a Napoli e chi segue la vita della città sa di cosa parlo. C’è un sistema politico e d’affari, sinistrorso o pseudo tale, rimasto orfano del suo dominus indiscusso e ventennale, messo all’opposizione da un ex magistrato senza parte politica. C’è una destra inesistente, senza idee, senza faccia, senza niente che da anni vorrebbe ma continua a non potere proprio perché, lo stesso ex magistrato, gli ha impedito di lucrare facilmente sul fallimento politico della sinistra napoletana. Due forze naturalmente opposte tra loro, con tutti i loro variegati satelliti, coalizzati costantemente contro chi governa la città superando ostacoli che ormai erano entrati nell’immaginario collettivo della città, come insormontabili. La spazzatura è colpa del sindaco, la viabilità è colpa del sindaco, il trasporto pubblico è colpa del sindaco, la disoccupazione è colpa del sindaco. Il tamburo è battente ventiquattro ore su ventiquattro dimenticando che Napoli per decenni è vissuta con la munnezza, con il trasporto pubblico inesistente, con il traffico che uccide, con i disoccupati che sono stati per anni coltivati dalle passate amministrazioni nel credo di “un disoccupato, un voto”. L’importante è buttarla in caciara, possibilmente mantenendo labile ed a breve termine la memoria dei napoletani, per dar modo ai soliti noti di lavarsi la faccia, dopo anni di scempio della città, e riproporsi alla ribalta politica.
A volte la vorrei anche io una bella rivoluzione, di quelle epocali, di quelle che cambiano la vita alla gente. Ma la vorrei silenziosa, sostanziale, senza vittime, senza martiri.
La prima rivoluzione la farei nella scuola. Aperta a tutti, senza barriere, senza credo, fatta da professionisti dell’educazione e del libero pensiero. Basta scimmiottare modelli che non ci appartengono, basta riforme più frequenti dei film dei Vanzina, basta allevare i ragazzi in batterie come fossero polli. Educazione al valore della cultura per poter migliorare la propria vita e realizzare i propri sogni.
La seconda sarebbe nel mondo del lavoro. Un bel sistema di regole certe e semplici che muovono dall’articolo trentacinque della nostra Costituzione “la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni”. Ci metterei anche un pizzico del trentasei “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e, in ogni caso, sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. Perché ho l’impressione che ci siamo dimenticati di questi due principi. Così come ci siamo dimenticati che i lavoratori, in genere intendiamo quelli che vivono di stipendio, i lavoratori subordinati sono quelli che si obbligano mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore (codice civile n.d.r.).
Ricapitoliamo: gli imprenditori sono quelli che realizzano guadagni mettendo in gioco le proprie capacità di fare impresa. Un coordinamento di idee, capitali e organizzazione finalizzate ad un obiettivo economico, assumendosene in pieno il rischio. I lavoratori sono quelli che svolgono una prestazione, sotto il potere di controllo e gerarchico dell’imprenditore, ed ai quali spetta un guadagno certo e proporzionato.
Quel che ho realizzato nel tempo è che il rapporto impresa-lavoro è stato inquinato, e con esso l’intero sistema economico e produttivo, da un complesso sistema di regole che, pur partendo da giuste rivendicazioni e da principi di civiltà, ne hanno completamente stravolto la sostanza. Gli imprenditori hanno cercato progressivamente di spostare il rischio d’impresa sui lavoratori. I lavoratori hanno reagito creandosi un sistema di regole ultragarantiste.
Mi sembra di vederli i controrivoluzionari levare i loro scudi, Ogni rivoluzione deve avere un contraltare conservatore e, in questo caso, i controrivoluzionari sarebbero tutti schierati compatti, con le loro bandiere di ogni tonalità del rosso del bianco e del nero, ad evocare la macelleria sociale. Macelleria sociale ? Per come la vedo io, e naturalmente potrei essere in errore, la macelleria sociale si è fatta negli ultimi cinquant’anni, quando si è permesso ad un intero paese di vivere, passatemi l’espressione, al di sopra dei propri mezzi, mercanteggiando quello che non si doveva mercanteggiare. Chi l’ha fatta ? Fate voi, a me non importa. Un’opinione vale l’altra.
E in tutto questo la politica che ruolo avrebbe ? La politica non avrebbe altra scelta che adeguarsi, si rivoluzionerebbe anche lei, rivoluzionata dall’esterno dalla gente, dai cittadini. Immagino i miei concittadini iniziare a considerare la città come il salotto buono d’Europa e ad a pretendere dai suoi amministratori pubblici capacità e comportamenti adeguati.
Anche al sistema dell’informazione non avrebbe altro da fare che adeguarsi. I giornalisti riprenderebbero ad essere indipendenti nel pensiero e nella penna, e tutti gli altri andrebbero ad aprire le loro edicole al mattino presto. Nessuno si potrebbe più dilettare a fiancheggiare interessi di varia natura non collettiva, a coltivare i giardini degli amici, a raccontar storielle. Verrebbe immediatamente invitato a cambiar mestiere.
Tu dici che vuoi la rivoluzione. Bene, sappi che puoi contare su di me.
La sogno questa rivoluzione, mi capita di sognarla ad occhi aperti, a volte mi sembra di vederla. Una rivoluzione senza violenza, una rivoluzione civile. Magari un po’ lenta, giusto per non lasciare indietro nessuno.
La foto l’ho trovata in rete. Nessuna notizia sull’autore era disponibile.