Nella notte di San Gennaro ho partecipato al rito pagano dell’anteprima del nuovo film di Paolo Sorrentino. A mezzanotte meno qualche minuto la sala del cinema si è aperta e i fedeli si sono accomodati, pronti a riempirsi gli occhi del verbo del maestro.
A caldo ho sentito la voglia di prendermi qualche appunto a mia futura memoria e, se avete voglia, lo condivido e vi avverto, mi impegno a non fare anticipazioni della trama, ma potreste incappare in piccole briciole di elementi della storia. In realtà ci ho messo del tempo per mettere a fuoco le sensazioni che mi ha lasciato Parthenope e, in verità, ancora non ho deciso se, nella mia opinione, vale la pena o no.
Paolo Sorrentino canta la storia di Parthenope e, prima cosa che mi è saltata all’occhio, lo fa alla maniera dei vecchi cantastorie. Una serie di quadri, viventi e cinematografici, che raccontano una storia che inizia negli anni cinquanta e finisce idealmente nei giorni del terzo scudetto del Napoli.
Nota a margine numero uno: per inquadrare Parthenope bisogna sbirciare il secondo episodio della prima stagione di Call My Agent. In altre parole, il nostro Paolo è regista e autore di grande successo. Acclamato da critica e pubblico ha sviluppato un suo linguaggio narrativo e non sembra curarsi molto del fatto che, dopotutto, la narrazione arrivi allo spettatore. In fondo: lui è Paolo Sorrentino e non deve dare conto a nessuno.
La prima domanda che mi ha proposto lo scorrere delle immagini è stata: chi è Parthenope e di cosa stiamo parlando?
Nota a margine numero due: questo è un film per fotografi appassionati di ritratti. Non vedo l’ora di averlo a disposizione per poter sezionare tutte le fotografie che nasconde. In questo Sorrentino, siamo sempre nel territorio delle impressioni personali, fa un passo avanti rispetto i lavori precedenti. Le immagini sono composte con maniacale attenzione, ricche di particolari e ogni particolare è un’attrazione, un tassello della storia. Ci sono le solite carrellate in avanti, all’indietro e di lato che sembrano un elemento irrinunciabile dello stile sorrentiniano e che, francamente, mi hanno un po’ stancato, ma spariscono le “facce di Fellini” e appaiono volti narranti.
Parthenope è una ragazza dell’alta, altissima, borghesia napoletana. Bella ma non bellissima, sicuramente affascinante nel suo lento e svogliato muoversi sul palcoscenico della vita. Una donna che nasce con tutti i problemi già risolti, condizione ideale per guardarsi dentro e perdersi in una spericolata ricerca del senso della vita. Parthenope nasce nel mare, vive perennemente affacciata sul golfo e dorme in una regale carrozza. C’è un fratello e un miglior amico del fratello, una famiglia, un comandante, un professore, un’attrice, uno scrittore tormentato, un vescovo, il camorrista e tutta una serie di personaggi collaterali e oggetti di scena che pongono quesiti mentre svolgono la trama. Ma la trama di chi?
La mia impressione è che, come Fabietto Schisa era dichiaratamente l’alter-ego del regista che elaborava la sua storia personale, anche Pathenope è Sorrentino, con la differenza che ora lo sguardo del regista è più alto, distaccato rispetto ai temi che racconta. Il nostro amato regista tiene ancora cose da dire e nun è nu strunz’ come tutti gli altri, solo che, questa volta lo fa in maniera più universale. Parthenope potrebbe essere la risposta che Fabietto vorrebbe dare Capuano, è l’altrove che Jep Gambardella riesce a solo ad intravedere. Parthenope è l’uomo in più, sono le conseguenze dell’amore, è il posto che dovrebbe essere.
La bellezza della narrazione, nella mia opinione, sta nella leggerezza e nell’universalità con cui l’autore affronta i temi a lui cari. Amore morte, desiderio, abbandono, fede, spiritualità diventano riflessioni dell’autore con cui lo spettatore può confrontarsi, mentre la storia scorre, da pari a pari. Tutto sommato la protagonista non è la giovane donna che piega la vita ai suoi desideri ma un insieme di emozioni e sentimenti che sono di tutti. Parthenope non è un film, è tanti film che si possono sviluppare in tanti modi diversi in accordo con lo spirito di chi lo guarda. Alla fine, comunque sia, ci ritroviamo tutti a confrontarci con il senso pratico della quotidiana fatica di vivere. L’abbandono, la perdita, la fuga, tanto per cambiare, sembrano avere un posto di rilievo nell’intreccio della storia che, nella mia opinione, restano sospesi in un finale inconcludente e oleografico che affida allo spettatore le conclusioni.
Del resto, lo stesso Sorrentino, intervistato nel confessionale di frate Fazio ha dichiarato “il problema dei miei film e che non hanno una trama”. Sono d’accordo, metto un mi piace e condivido ma aggiungerei che è il punto di forza del sorrentinismo.
Nota a margine numero tre: chiamare in causa lo spettatore, lasciargli spazio per costruirsi il suo film, offrire la possibilità di specchiarsi, tra tanti, nei sentimenti in cui maggiormente si riconosce, è sempre una bella mossa. Alla fine della pellicola la questione resta: questa è la storia, facci un po’ quello che vuoi!
In tutto questo svolgimento, Napoli ricopre il ruolo di un palcoscenico che con i suoi simbolismi scandisce il tempo che passa. Ho trovato troppo patinata la ricostruzione degli anni ’50 che, a tratti, sembra uno spot di Dolce & Gabbana, il resto funziona. Opinione personale: la storia funzionava uguale anche ambientata a Milano, in un paesino asiatico o sulle strade della California e questo è un ulteriore elemento a sostegno della tesi che Parthenope può essere anche un bel film.
Qualcuno potrebbe osservare che la storia di Parthenope si intreccia con la storia della città e che il film è la fine di un percorso interiore e sociale che il regista ha iniziato nel 2013 con La Grande Bellezza, ha affrontato a muso duro con la saga del nuovo papa giovane tra il 2016 e il 2020 ed ha messo a fuoco con la mano di D10s nel 2021. Probabilmente è anche così.
Altra cosa che traspare evidente è che la produzione ha guardato ben oltre i confini dell’Italia. Questa è una roba che sarà vista in tutto il mondo, si vede e forse si è esagerato nel renderla vendibile. Sì, ci sono cose stonate, esagerate al punto di diventare inutili se non fastidiose ma, senza fare anticipazioni, diventa impossibile raccontarne.
Ci sono anche alcune cose gustose assai e mi chiedo se sono fatte apposta, oppure sono io che le me le sono immaginate. Isabella Ferrari che interpreta un’insegnante di recitazione è bellissima, considerando che negli anni, nella mia opinione, poco si è discostata dalla Selvaggia di Sapore di Mare. Luisa Ranieri dopo aver clonato Mina in Nuovo Olimpo interpreta, irriconoscibile ma praticamente con un trucco molto simile, un avatar della Loren in cui Parthenope si specchierà per fare due conti. Gary Oldman, l’indimenticato commissario Gordon di Nolan e Sirius Black padrino di Harry Potter, con due facce perse nel vuoto partecipa alla festa e si gode qualche settimana a Capri.
Nota a margine numeo quattro: qualche giorno dopo la prima sono entrato alla Feltrinelli ed ho trovato i libri di John Cheever in bella mostra. Vabbè, ci può stare.
Bello il professore di antropologia interpretato da Silvio Orlando che resta sempre il solito Silvio Orlando, diretto da Salvatores, Moretti o Sorrentino mi sembra che poco cambi, sempre sul pezzo anche quando la storia lo costringe a sostenere allegorie che mi sono sembrate eccessive, al limite del ridicolo.
Ho trovato fastidioso assai il fatto che tutti i personaggi fumano, continuamente, incessantemente, ossessivamente, quasi che la sigaretta perennemente accesa rappresentasse qualcosa di mistico. Fastidioso assai. Inopportuno come un paio di scene di nudo e erotismo spicciolo splendidamente manierose e inutili che tanto, metticele che tutto fa Sorrentino.
La Sandrelli, così poco partenopea, è una presenza abbastanza inutile, specchietto per le allodole, da forma al finale della storia. Il viaggio dell’eroe finisce dove è iniziato, tutto a carico dello spettatore decidere se e quanto ne sia valsa la pena. Viaggio o fuga? Vittoria o resa incondizionata?
Affermazione o negazione del se? Fate voi, tanto Sorrentino resta Sorrentino e noi, ci dobbiamo stare.