Una volta si moriva, ed era tutto qua. Si moriva in casa, magari molto anziani, circondati dall’affetto dei propri cari. I figli, i nipoti, il coniuge, i vicini di casa. Si moriva nel proprio letto, vestiti con il pigiama bello preparato per l’occasione anni prima, il letto con le lenzuola pulite, i fiori, l’odore del caffè che si confondeva con quello delle candele. Si moriva con nelle orecchie il chiacchiericcio delle persone care.
Nei casi più sfortunati si moriva in ospedale. Molte volte non si sapeva neanche perché. Le malattie erano poche e poco conosciute, i dottori erano diversi da oggi, non esistevano i ricoveri giornalieri e le terapie intensive. L’accanimento terapeutico non si praticava per semplice carità umana o forse non lo si conosceva neanche. Si finiva in corsia, nei casi più agiati in clinica, in camera singola con bagno privato, tra le cure delle immancabili suorine. Subito dopo il decesso il morto veniva spostato nella camera mortuaria in compagnia di altri sfortunati ed i parenti condividevano il momento con i parenti degli altri morti.
In ogni caso, dopo le tradizionali 24 ore, arrivavano quelli delle pompe funebri con la bara. Si componeva la salma, si chiudeva il coperchio e poi tutti al campo santo. Dopo la sepoltura si tornava a casa, magari per qualche giorno i congiunti beneficiavano del conforto di parenti ed amici, ci si dedicava alla vedova o al vedovo, agli orfani, all’amico più caro. Poi, lentamente la vita riprendeva a scorrere tranquilla, rimanevano i ricordi, si cambiavano le abitudini che si condividevano con il caro estinto ed era tutto finito.
In qualche caso, quando c’era un’eredità da spartire si alzava un po’ di bufera. In genere erano i parenti indiretti ad alimentarla. Se moriva il vecchio genitore che aveva qualche cosina da lasciare ai figli, in genere, a litigare e ad alimentare litigi erano le mogli dei figli o i mariti delle figlie. Tecniche e modalità diverse, le donne più sottili e manovratrici, gli uomini più diretti e sempliciotti, ma tutti accomunati dallo scopo di attirare maggior lascito al proprio coniuge.
Comunque andava, in qualche modo era tutto finito. Rimanevano i ricordi, magari qualche foto o qualche immagine in movimento, rimaneva la tristezza e la nostalgia. Rimaneva la mancanza.
Quel che più mi colpiva da bambino, sono stato bambino forse dal ’68 al ’75, era che all’improvviso non si poteva più telefonare alle persone. Quando si è bambini non va in giro da soli, in quegli anni i bambini erano, molto più di oggi, guardati a vista. Erano i complementi di arredo dei genitori. Per me il telefono era il legame con il mondo esterno, era il lungo filo nero che spariva nel muro di casa e arrivava al mondo. Bastava conoscere il numero. Si era lontani anni luce dalla posta elettronica, ogni nucleo familiare, ogni casa, era individuato da un numero a sei cifre. Se si chiamava fuori città bisognava aggiungere il numero del prefisso. Si componeva il numero su di un pesante disco rotante con dieci buchi che corrispondevano a dieci numeri. Zero, uno, due tre, quattro, cinque, sei, sette, otto nove e dieci. Niente asterisco e nessun cancelletto. Il cancelletto era la porticina che dava sul piccolo cortile dietro casa. Componevo il numero dopo aver chiesto il permesso a mamma, aspettavo di sentire il segnale che stava ad indicare che dall’altro capo del filo il campanello squillava e trattenevo il respiro. Il galateo che mi aveva insegnato mamma prevedeva prima un saluto, poi dovevo dire chi ero e chiedere gentilmente di parlare con la persona che desideravo. Anche se non esistevano le tariffe a scatti o a secondi, dilungarsi troppo al telefono era considerata una scortesia.
Di solito capitava che mamma e papà, in un giorno qualsiasi, tornavano a casa più tardi del solito e, con facce cupe e sofferenti, annunciavano alla famiglia che qualcuno o qualcuna non c’era più. La vecchia zia, il parente lontano, l’amico di famiglia, il giovane stroncato da un incidente o da una misteriosa malattia. La prima cosa che mi veniva in mente in queste occasioni era che non avrei più potuto parlare al telefono con il caro estinto. Solo quando sono morti i nonni ho partecipato più da vicino alla liturgia dl distacco. Non ne ho grandi ricordi. Ricordo solo che, a cose fatte, non era più possibile telefonargli. Se ci avessi provato, avrebbe risposto la zia e mi avrebbe preso per matto.
Ora è tutto diverso. Le persone non muoiono più in casa, finiscono i loro giorni in apposite strutture sanitarie. Solo a pochi ultra ottantenni è concesso il privilegio di morire nel proprio letto. Si muore sempre per una patologia contro la quale la scienza medica ha fatto tutto il possibile. Ora, durante il rito funebre, si usa l’orazione civile. Una volta il sacerdote era l’unico a parlare fino a quando la bara non veniva sollevata e condotta al luogo dell’eterno riposo. Ora parenti ed amici, dopo la messa, prendono la parola per il loro saluto laico.
Ora è tutto diverso. Ora quando torno a casa da un funerale non è tutto finito. Ho ancora in tasca il mio telefono cellulare e nella rubrica è memorizzato il numero personale della persona scomparsa. Il registro delle chiamate mi ricorda che solo qualche giorno prima ci siamo parlati e mi mostra anche una sua bella foto. I messaggini sono ancora tutti memorizzati a ricordarmi il tempo passato insieme. Dal telefono passo al computer e vado subito alla posta elettronica. Messaggi. Tanti messaggi. E in ogni lettera una traccia del tempo trascorso insieme. C’è anche una scheda con tutte le informazioni di contatto: numeri di telefono fissi e mobili, l’indirizzo di casa, i recapiti dell’ufficio, l’indirizzo di posta elettronica, il contatto sul social network preferito. Ed ancora ci sono i post, i tweet, i messaggi istantanei, le risate, le cose serie, le fotografie che abbiamo condiviso con il mondo digitale, le litigate che abbiamo fatto, quella volta che no ci siamo messi d’accordo sull’orario del cinema, quella volta che ha fatto il fesso con la mia ragazza, quella volta che siamo andati al concerto di Bruce.
E poi mi prende la stanchezza e spengo tutto. Ci vorrà del tempo. Prima o poi troverò il tempo e la forza di cancellare il tuo numero dal mio telefono, smetterò di aspettare una tua mail, di sperare di trovare un tuo commento ad una mio post in rete. Prima o poi troverò la forza di premere quel tasto [canc] come ho trovato la forza di bussare un’ultima volta sulla tua bara e dirti addio.
ciao r.